Dalle società lucrative il c.c. distingue le società cooperative (v. società cooperativa), che regola nel titolo VI del quinto libro: la loro caratteristica è , per l’art. 2511, lo scopo mutualistico, e non lucrativo, perseguito dai soci, o meglio, secondo la precisazione contenuta nella stessa relazione ministeriale, lo scopo prevalentemente mutualistico. Che cosa sia lo scopo mutualistico il c.c. non dice o, quanto meno, non dice in termini positivi: un elemento, negativo, di definizione è desumibile nell’art. 2518 n. 9, ai sensi del quale l’atto costitutivo della società cooperativa deve indicare la percentuale massima degli utili ripartibili. Ciò da cui emerge un rapporto di, sia pure parziale, antiteticità fra scopo mutualistico e scopo di lucro (v. lucro, scopo di mutualità): non c’è scopo mutualistico, e non ci può essere società cooperativa, dove i soci sono mossi da un intento di illimitato profitto. Analogo elemento negativo di definizione si ricava dall’art. 45 della Costituzione, per il quale la Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. Qui il rapporto di antiteticità dello scopo mutualistico rispetto a quello lucrativo è più netto che nel c.c.: il carattere di mutualità della cooperazione comporta, secondo la norma della Costituzione, una radicale esclusione, e non solo limitazione, dello scopo di lucro, ossia dei fini di speculazione privata. La Costituzione postula, con ciò , una cooperazione che sia mossa da uno scopo esclusivamente, e non prevalentemente, mutualistico, quale invece è, secondo la ricordata testimonianza della relazione ministeriale, la cooperazione regolata dal c.c.. Il fenomeno sottostante è quello per il quale un gruppo di utenti o un gruppo di lavoratori di un determinato settore imprenditoriale si organizza in società per esercitare, esso stesso, l’attività di impresa di quel determinato settore: un gruppo di utenti, come nel caso delle cooperative di consumo, costituite per la rivendita al minuto di generi alimentari, e nei casi, ancora, delle cooperative edilizie, costituite per la costruzione di case economiche e popolari, delle cooperative di credito, di assicurazione ecc.; un gruppo di lavoratori, come nei casi delle cooperative di produzione e lavoro, operanti nei più diversi settori dell’attività manifatturiera, delle cooperative agricole, delle cooperative di pescatori, delle compagnie portuali. Alla gestione capitalistica dell’impresa, preordinata alla ricerca del profitto, è sostituita l’autogestione dell’impresa da parte degli utenti o dei lavoratori: il gruppo organizzato mira (così la relazione al c.c. definisce lo scopo mutualistico) a fornire beni o servizi od occasioni di lavoro direttamente ai membri della organizzazione a condizioni più vantaggiose di quelle che otterrebbero dal mercato. Il fine è di realizzare, anziche´ il profitto, l’immediato vantaggio dei soci in quanto utenti o in quanto lavoratori: è , se si tratta di cooperativa di consumo, di vendere ai soci a minor prezzo di quello praticato dall’imprenditore capitalistico; è , se si tratta di cooperativa di lavoro, di retribuire i soci con un maggior salario di quello corrisposto dall’imprenditore capitalistico. Le cooperative possono, in teoria, attribuire ai soci il vantaggio mutualistico in un duplice modo: possono attribuirlo direttamente e, se si tratta di cooperative di consumo, praticare loro prezzi pari ai costi o, se si tratta di cooperative di lavoro, corrispondere ai soci salari pari all’intero provento netto dell’impresa, e così via; ma possono anche, ed è questo il sistema generalmente seguito, attribuire il vantaggio mutualistico in modo indiretto, praticando ai soci il prezzo corrente di mercato o corrispondendo ai soci un salario pari a quello corrisposto dalle imprese capitalistiche, per poi versare loro, a scadenze periodiche, somme di danaro, sono i cosiddetti ristorni (v.), corrispondenti alla differenza fra prezzi praticati e costi o alla differenza fra ricavi netti e salari pagati. I ristorni distribuiti dalle cooperative non vanno confusi con gli utili distribuiti dalle società lucrative, anche se gli uni e gli altri presentano la comune caratteristica esteriore di essere somme di danaro periodicamente ripartite fra i soci. Gli utili rappresentano una rimunerazione del capitale, e vengono ripartiti fra i soci in proporzione al capitale conferito da ciascuno di essi (artt. 2263, 2350); i ristorni sono, invece, l’equivalente monetario del vantaggio mutualistico: nelle cooperative di consumo, dalla pratica delle quali il termine ristorno è nato, essi sono il rimborso ai soci del maggior prezzo pagato rispetto al costo del bene o del servizio ricevuto; sono, nelle cooperative di lavoro, somme corrisposte ai soci a integrazione del minor salario percepito rispetto agli introiti netti della società . Dal ristorno esula ogni idea di rimunerazione del capitale conferito: esso non è corrisposto ai soci in proporzione alla quota di capitale sottoscritta, ma in proporzione, se si tratta di cooperativa di consumo, all’esborso effettuato dai soci per l’acquisto di beni o, se si tratta di cooperativa di lavoro, al salario percepito. Nella differenza che esiste fra ristorno e utile risiede, anzi, la caratteristica più intima della mutualità: il ripudio, cioè , del principio capitalistico secondo il quale una quota del valore dei beni prodotti deve rimunerare la proprietà del capitale impiegato per produrli. Quanto si è fin qui detto vale però per la mutualità pura, ossia per le cooperative che operano per realizzare uno scopo esclusivamente mutualistico. Secondo il c.c. le società cooperative sono, invece, caratterizzate, come si è osservato al principio, da uno scopo prevalentemente, ma non esclusivamente, mutualistico: il concetto di mutualità che vi è accolto è la cosiddetta mutualità spuria, frutto di un compromesso fra principi mutualistici e principi capitalistici. Gli artt. 2518 n. 9 e 2536 ammettono una, sia pure limitata, distribuzione di utili ai soci: un primo limite è dato, per l’art. 2518, dal fatto che l’atto costitutivo deve, necessariamente, indicare la percentuale massima degli utili ripartibili; un ulteriore limite deriva dall’obbligo di destinare almeno la quinta parte degli utili netti annuali a riserva legale, quale che sia l’ammontare già raggiunto da questa (art. 2536, comma 1o). Ed il primo di questi limiti è , visibilmente, alquanto elastico, dal momento che qualsiasi percentuale fissata dall’atto costitutivo, anche quella più vicina al cento per cento, rispetta il precetto dell’art. 2518 n. 9. La riforma del 1992 ha imposto di destinare il 3% degli utili netti annuali ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione (art. 2536, comma 2o), gestiti a tal fine dalle associazioni nazionali del movimento cooperativo (cosiddetta mutualità esterna). Entro questi limiti le società cooperative possono, dunque, perseguire l’obiettivo capitalistico del profitto, anche se il limite massimo legislativamente posto al valore della quota di ciascun socio vale, in ogni caso, ad impedire che la cooperativa possa trasformarsi in strumento di accumulazione capitalistica. Attuano, generalmente, una divisione di utili fra i soci quelle cooperative che, come ad esempio le cooperative di consumo o le cooperative di credito, vendono beni o prestano servizi non soltanto ai soci, ma anche a terzi: il maggior prezzo o il maggior interesse corrisposto dai soci viene successivamente rimborsato loro a titolo di ristorno; il maggior prezzo o il maggior interesse corrisposto dai terzi viene, invece, distribuito ai soci a titolo di dividendo. La differenza fra ristorno e utile rimane ben netta: i ristorni, determinati nel modo sopra descritto, vengono collocati al passivo del bilancio; l’eccedenza attiva del bilancio è , invece, l’utile distribuibile, e viene distribuita fra i soci, nella percentuale massima fissata dall’atto costitutivo, in proporzione della quota di capitale conferita da ciascuno di essi. Un generale limite alla divisione degli utili è stato, invece, introdotto dall’art. 17 l. n. 72 del 1983: la rimunerazione del capitale sociale delle cooperative può raggiungere, ma non superare, la rimunerazione dei prestiti sociali (in pratica, circa il 18%). La norma si spiega per il bisogno di apporti in capitale di rischio, sempre più avvertito anche dalle società cooperative. Sotto questo aspetto, la cooperativa tende a presentarsi come strumento di raccolta del risparmio popolare, e la mutualità tende ad essere, oltre che valorizzazione del lavoro, anche valorizzazione del risparmio. Il principio capitalistico della rimunerazione del capitale vi appare ancora accolto (e si tratta, perciò , di mutualità relativamente pura); ma può superare la misura della rimunerazione dei prestiti sociali. Ev appena il caso di precisare che il limite vale per i dividendi e non anche per i ristorni: la cooperativa può ripartire fra i soci, a titolo di ristorno, somme eccedenti la percentuale sopra ricordata; ad esempio può , trattandosi di cooperativa di lavoro, ripartire fra i soci somme che, quantunque eccedenti quella percentuale, siano state calcolate in ragione non del capitale conferito, ma dei salari percepiti dai soci.
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