Le controversie collettive, introdotte nell’ordinamento italiano dalla legge 3 aprile 1926, n. 563, e deferite alla giurisdizione della Corte d’appello funzionante come magistratura del lavoro, si sono distinte, fin da allora, in controversie collettive giuridiche o su diritti, quando abbiano ad oggetto l’interpretazione e l’applicazione di norme collettive, e controversie collettive economiche o su interessi, quando oggetto di esse sia la modifica di tali norme. Nel sistema predisposto dal legislatore corporativo, legittimate all’azione erano le sole associazioni sindacali legalmente riconosciute, oltre al p.m.. Sicche´ parlare di controversie collettive significa oggi fare riferimento ad un fenomeno storicamente datato e ad un concetto che il nostro ordinamento ha superato nel momento stesso in cui ai sindacati di diritto pubblico si sono sostituiti sindacati operanti nel campo del diritto comune, spezzando quel nesso su cui poggiava la precedente costruzione. L’esplicita abrogazione della disciplina delle controversie collettive si è comunque avuta solo con la legge 11 agosto 1973, n. 533, che sostituisce con il metodo della novellazione il titolo IV del libro secondo del c.p.c.. Non esistendo, allo stato attuale, una disciplina processuale differenziata, la dimensione collettiva del fenomeno associativa non può che essere incanalata nell’alveo del processo individuale, attraverso gli strumenti ordinari del rito del lavoro. In un sistema di autogoverno del conflitto collettivo il problema del regime delle controversie collettive economiche non si pone, risolvendosi queste nell’ambito dell’autonomia negoziale dei gruppi. D’altra parte, è venuta assottigliandosi la differenza specifica tra queste e le controversie giuridiche in ordine all’applicazione di un istituto quale il diritto di sciopero, sicche´ il significato da attribuire all’espressione controversie collettive giuridiche è quello di incertezza riguardante gli obblighi di comportamento cui sono tenuti i sindacati in pendenza del contratto collettivo, o più precisamente, di ripresa della dialettica degli interessi sotto forma di contrasti interpretativi o applicativi dopo la provvisoria sistemazione raggiunta con la stipulazione del contratto collettivo e in vista del rinnovo dello stesso. Nell’ordinamento intersindacale è collettiva non solo la vertenza la cui soluzione riguarda la collettività dei lavoratori, ma la controversia suscettibile di mettere in gioco l’ordine collettivo che le parti hanno ricercato o vanno ricercando attraverso la disciplina collettiva. In relazione a tale tipo di controversie collettive, oltre che all’azione diretta, il sindacato può fare ricorso agli organismi previsti dai contratti collettivi, quali le commissioni paritetiche cui le parti collettive affidano l’interpretazione autentica delle clausole dubbie; ovvero alle procedure di mediazione esistenti; o ancora all’autorità giudiziaria quando sia dominus di una situazione sostanziale che gli deriva dal contratto collettivo (ad es. quando chieda l’accertamento dell’esatta portata di una clausola obbligatoria, ovvero la condanna per l’inadempimento di una obbligazione assunta dalla controparte nei suoi confronti). Per le controversie collettive nel pubblico impiego, e per la possibilità e l’efficacia di ulteriori disposizioni contrattuali interpretative v. l’art. 53 del d.leg. 3 febbraio 1993, n. 29. Per la violazione di clausole concernenti i diritti e l’attività del sindacato contenuto nelle pattuizioni collettive riguardanti i servizi pubblici, l’art. 7 della l. n. 146 del 1990 ammette esplicitamente l’applicabilità della speciale tutela prevista dall’art. 28 dello statuto dei lavorati (v. comportamento antisindacale). .
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