La donna non può contrarre matrimonio, se non dopo trecento giorni dalla morte del coniuge o comunque dallo scioglimento (v. divorzio), dall’annullamento (v. matrimonio, nullità e inesistenza del vedova) o dalla cessazione degli effetti civili (v. divorzio) del precedente matrimonio, eccettuato il caso in cui il matrimonio è stato dichiarato nullo, ai sensi dell’art. 122 c.c., per l’impotenza, anche soltanto di generare, di uno dei coniugi (art. 89, comma 1o, c.c.). Il tribunale con decreto emesso in camera di consiglio, sentito il p.m., può autorizzare il matrimonio quando è inequivocabilmente escluso lo stato di gravidanza o se risulta da sentenza passata in giudicato che il marito non ha convissuto con la moglie, nei trecento giorni precedenti lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio. Contro il decreto può essere proposto reclamo, con ricorso alla Corte d’appello, nel termine perentorio di dieci giorni dalla comunicazione. La Corte d’appello decide con ordinanza non impugnabile, emessa in camera di consiglio. Il decreto acquista efficacia quando è decorso il termine previsto di dieci giorni dalla comunicazione, senza che sia stato proposto reclamo. Il decreto è notificato agli interessati e al p.m. (art. 89, comma 2o, c.c.. Il divieto cessa dal giorno in cui la gravidanza è terminata (art. 89, comma 3o, c.c.). La donna che contrae matrimonio contro il divieto dell’art. 89 c.c., l’ufficiale che lo celebra e l’altro coniuge sono puniti con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di danaro da lire quarantamila a lire centosessantamila (art. 140 c.c.). La moglie aggiunge al proprio cognome a quello del marito e lo
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